mercoledì 30 luglio 2014

Giorno 2

Atene-Lamìa-Trìkala, 29 luglio 2014

La sveglia suona impietosa alle ore 6:30, sbattendoci in faccia i muri sporchi della 18B dell’Hotel Delfini. Ci solleviamo dai materassi senza troppi indugi con un’insolita solerzia mattutina legata perlopiù alla volontà di lasciare Atene il prima possibile. Andrea non ha chiuso occhio, massacrato da zanzare avide di sangue italiano, e Casty si è reso protagonista durante la notte di un sussulto tipo ‘L’esorcista’ accompagnato da un misterioso “Ma tu?!” destinato a rimanere tale per le generazioni a venire.
Nemmeno mezz’ora dopo siamo già per strada, diretti alla stazione di Larissa per lasciare la capitale alla volta di Lamìa. Sulla metropolitana ci si siede accanto una vecchietta trasandata la cui borsa emana un tanfo nauseabondo: Atene, per noi, avrà per sempre quell’odore.
Alla stazione nessuno sembra sapere come funzioni il biglietto InterRail e ci fanno fare due inutili code agli sportelli della biglietteria. Andrea, quasi gridando, esplode in una serie di insulti prima di concludere: “E’ da Platone che ‘sti rincoglioniti non partoriscono un cervello bono.”
La notizia migliore, però, arriva dalla bigliettaia a colloquio con Siso: ci aspetta un bel tragitto di tre ore da gustarci in piedi. Nulla di grave, ma fatichiamo a ritrovare la positività di un tempo.
Sul vagone proviamo ad arrangiarci in qualche modo, chi per terra, chi provando a infilarsi negli scomparti riservati ai bagagli. Dopo un’ora e qualcosa si libera un posto, occupato da Casty che ieri ebbe in sorte la brandina. Siso e Andrea si avventurano lungo il treno alla ricerca di due poltrone vuote. Eccole! Improvvisamente compaiono al centro di un vagone, uno vicino ad un ragazzo e un altro vicino ad un’anziana signora. Andrea le chiede con i gesti e un po’ di inglese se il posto accanto a lei è libero e riceve in risposta solo incomprensibili parole greche e risate degli altri viaggiatori. Pazienza, ci sediamo lo stesso. Pochi minuti dopo scopriamo cosa volesse dire da dietro la dentiera: il marito esce dal bagno e si avvia in una lenta processione a riappropriarsi del proprio posto. La gente ride. “Ridete su ‘sto cazzo”, la raffinata risposta di un Andrea già bello esaurito. La giornata, però, è destinata a decollare.
Lamìa sembra uno di quei classici paesi del sud Italia. Attraversiamo un lungo mercato godendoci l’ombra dei tendoni e degli ombrelloni improvvisati per coprire le verdure e gli ortaggi esposti in vendita. L’autobus che ci porterà a destinazione ci lascia aspettare parecchio sotto il sole cocente, ma alla fine arriva, benché guidato da un antipatico indigeno. Arriviamo alla stazione dei pullman dove saliamo sul primo in partenza. Siamo ad un passo da qualcosa di importante, ogni centimetro d’asfalto calpestato dalle ruote sembra essere un salto indietro nel tempo, poi all’improvviso eccoci: le Termopili.
Un imponente monumento a Leonida e ai suoi spartani sembra sorgere dalla stessa pietra. Pochi metri di terra consacrata dal sangue, in cui proferire parola sarebbe profano.
Contempliamo per un po’ l’opera andando anche sul colle, Kolonos, dove caddero gli ultimi spartani. Il nostro pullman arriverà tra qualche ora e il sole picchia forte. Decidiamo di seguire, allora, il cartello per la Rest Area che dovrebbe trovarsi a 200 metri. Dovrebbe, infatti, perché 200 metri dopo non c’è proprio niente. Insistiamo, però, camminando in mezzo a grilli e rovi di more acerbe, in un vialetto appena fuori una specie di superstrada. La perseveranza è presto ripagata e ci imbattiamo in una taverna che, nonostante stia per chiudere, ci fa sedere fuori e comprare tre birre ghiacciate servite in bicchieri altrettanto freddi. Meglio del sesso, meglio di qualunque cosa.
Tornati sotto al monumento ci sdraiamo all’ombra di un ulivo aspettando l’arrivo del nostro pullman previsto per le 16. Arriva prima Rado (ammesso che sia questo il nome che ha sbiascicato), un vecchietto in cerca di sigarette e qualche spicciolo, ma da offrirgli abbiamo solo poche chiacchiere. Alle 4 precise salutiamo Leonida e gli dei che qui albergano prima di tornare a Lamìa.
Dalla stazione prendiamo un treno per Trikala, città da cui partirà un’altra importante spedizione. Nel tragitto in treno niente da segnalare, a parte una bizzarra signora bionda che mischiando italiano, greco e tedesco ci invita a non parlare tra di noi. Cose strane. Una volta arrivati la attraversiamo per arrivare all’ostello e rimaniamo colpiti dalla bellezza della città che avevamo stupidamente sottovalutato. Le strade sono piene di ragazzi in giro per locali, i muri pieni di scritte a sfondo politico: riconosciamo il logo di Alba Dorata su uno striscione, una falce e martello su un altro poco distante, dopo un ponte, invece, decifriamo la scritta “Gaza” su un terzo.
L’ostello è molto accogliente e facciamo subito amicizia con il proprietario, Dimitri, che ci offre anche una birra. La sua ragazza è napoletana e i suoi fratelli hanno fatto l’università in Italia, quindi parla discretamente la nostra lingua. È un ingegnere meccanico, ma dice che con la crisi le persone hanno imparato a ripararsi le cose da soli ed ecco perché ha un ostello. Come suo fratello, del resto, che però lavora a Salonicco. Ci spiega cose molto utili sul percorso che abbiamo in programma per domani e ci giura che il caffè che fanno qui piace persino alla sua esigente ragazza partenopea.
Lo salutiamo e dopo esserci lavati con acqua gelida (tempra fisico e mente, tranquilli), facciamo un giro in città per mangiare qualcosa. Ci fermiamo in un posticino modesto, dove mangiamo come dei re spendendo una miseria.
La giornata, cominciata male a dir poco, si conclude in modo fantastico. Il morale delle truppe è alto, così alto che domani conquisteremo il cielo.



martedì 29 luglio 2014

Giorno 1

Roma-Atene, 28 luglio 2014

Nel primo giorno dell’ultimo viaggio paragonammo l’InterRail al fare l’amore, ad un rapporto romantico, vivace e a tratti violento tra noi e la strada. Oggi, a distanza di due anni, abbiamo ripreso quella relazione proprio lì dove si era interrotta, tra le albe spezzate, il dolore alle gambe, i panorami dentro agli occhi e i vagoni sporchi d’Europa. Una pausa non tanto breve, due anni utili a riprendere il fiato prima di tornare a premere forte i nostri corpi contro la vita e contro tutto il mondo, con la concentrazione necessaria per evitare guai, ma lontani da manie borghesi di controllo: l’equilibrio giusto, insomma, per un salto della quaglia lungo tre anni. 
Il nostro viaggio quest’anno è cominciato con il buio, con le strade di Roma deserte da far spavento, con l’adrenalina unico rimedio ad un sonno destinato a farsi sentire. Il nostro aereo parte alle 6:40 per Atene, chiusura del gate alle ore 6:10. In macchina tutto sembrava riportarci a quella mattina del 2011, quando tre ragazzi freschi di maturità si avvicinavano per la prima volta ad un esperienza che avrebbe in breve tempo cambiate le loro vite. Arrivati a Fiumicino scopriamo la prima sorpresa del viaggio: ci chiama per nome ed ha i capelli biondi. Noi che ci siamo sempre trovati ad affrontare le partenze in solitudine, ci troviamo in pochi minuti circondati di ragazze sorridenti  e bellissime nonostante le poche ore di sonno fatte. Le conosciamo e ci fermiamo a salutarle mano a mano che arrivano. Parlano e dicono cose che non capiamo, ma abbastanza in fretta intuiamo che non sono venute lì solo per salutarci, come le donne dei soldati alla stazione. Sono a Fiumicino perché, pensate un po’, devono salire sul nostro stesso aereo, avendo in programma di prendere, dalla capitale greca, un traghetto per l’isola di Paros. Stiamo partendo, e proviamo a lasciarci un po’ della nostra misoginia alle spalle accogliendo la coincidenza magno cum gaudio.
Diamo una mano alle fanciulle con i loro bagagli (7 valigie per 5 donzelle) e ci separiamo per la fila all’imbarco. Una ragazza nera che parla una lingua meticcia ispanico-italiana ci chiama alla sua postazione, ci scherziamo e Siso pensa bene di darle un “Excellent” tramite il sistema di valutazione del personale easyJet. Il che è divertente perché solo pochi minuti dopo aver imbarcato lo zaino del nostro roscio spilungone, si ricorda che le cinghie potrebbero impigliarsi negli ingranaggi del nastro trasportatore e far esplodere Fiumicino. E’ andata così. Per l’imbarco dei due zaini rimasti, veniamo mandati alla sezione “bagagli fuori misura”, dove una cicciona coi baffi li prende in consegna. In fila per il metal detector siamo già molto indietro rispetto alle ragazze e manca poco alla chiusura del gate. Oltretutto, la sbadata tizia easyJet ci ha messi in guardia “un minuto dopo e v’attaccate al cazzo”. Excellent .
Superati i controlli cominciamo a correre, Andrea per sbrigarsi non si infila la cinta portandola in mano come per buttarsi in una violenta rissa. Le scarpe scivolano sulle piastrelle di Fiumicino, i minuti passano. Ancora una volta, come tre anni fa, rischiamo di perdere il volo. La linea retta mente per davvero. Ad ogni modo facciamo in tempo a metterci in fila, individuando di nuovo le nostre amiche poco avanti a noi riuscendo, per altro, a passare prima di loro.
Il volo trascorre tranquillo, partendo addirittura in anticipo. Si stacca da terra in un secondo e in un secondo tutto comincia: siamo in viaggio.
La tradizione della merenda in aeroporto viene rispettata, nonostante il tentativo della comitiva delle donne di sconvolgere un equilibrio così sacro. Finito il rituale andiamo a prendere un autobus diretto al centro città tutti insieme appassionatamente. E con passione passiamo il tragitto, in cui cominciano a farsi vedere le ferite aperte e purulente che “la crisi” ha scavato sul volto di una città che di per sé già non ci appare tanto bella. Su grigi palazzi abbandonati l’unica nota di colore sembra essere la scritta “vendesi”, che più che un annuncio sembra una preghiera disperata, una supplica. I tabelloni enormi destinati alle pubblicità sono da tempo diventate vuote tele per artisti di strada, come cornici di un quadro post-apocalittico. Arrivati al capolinea ci separiamo dalle ragazze: ora è giunto il momento di dividerci, voi andate in vacanza, noi in viaggio. Siamo molto contenti di averle incontrate, così come loro lo sono di essere entrate a far parte di questa meravigliosa storia. Grazie a loro possiamo dirlo anche quest’anno: il viaggio è iniziato sotto i migliori auspici. Auspici di donna, stavolta.
Camminando pochi metri per le vie di Atene, le nostre prime percezioni vengono quasi immediatamente confermate. Assistiamo infatti ad una manifestazione di un qualche sindacato a brutto muso col reparto mobile delle forze dell’ordine. Giornalisti, fotografi e curiosi ovunque: benvenuti in Grecia.
Scendiamo verso Monastiraki, una piazza sotto l’Acropoli e ci troviamo di fronte un bizzarro scenario: in fondo alla via si intravedono i vecchi muri di una Chiesa Bizantina, ma tra noi e loro brulicano decine e decine di turisti in ciabatte, intenti a rimbalzare da un negozio all’altro con buste stracolme di robaccia occidentale.
Il caldo ci picchia forte le teste e lo zaino ci corrode le spalle, siamo fuori forma, ma rimedieremo presto. Individuiamo l’accesso all’Acropoli, ma decidiamo saggiamente di rimandare la visita ad orari più consoni e a stomaci più pieni. Torniamo a Monastiraki per pranzare e, dopo un difficoltoso slalom tra gli insistenti butta dentro dei vari ristoranti, riusciamo a prendere dei panini serviteci da un paio di ragazze e rivelatosi poi anche molto gradevoli. Eccoci finalmente pronti per visitare il pezzo forte della città. Lungo le stradine in salita Siso realizza uno dei sogni della sua vita, acquistando a pochi euro dei pantaloni di lino tipo Smaila-Briatore. Tutto ciò è meraviglioso.
Entriamo nell’Acropoli pagando, ma solo perché siamo così idioti da non aver portato nulla che ci qualifichi come studenti universitari. Casty prega: “Gesù..”
Proprio il nostro Lorenzo è vittima, pochi minuti dopo aver lasciato gli zaini al deposito, di un tentativo di approccio da parte di un gigantesco indiano ambiguamente piazzato nei bagni. Nulla di fatto, però, la scintilla non scatta. Persino nell’Acropoli ci sono cani randagi, presenti anche nel resto della città, tanto che un gruppo di asiatici pensa bene di farsi una foto ad uno di loro, palesemente sofferente per il caldo e la sete, scatenando l’odio medievale di Siso. Non possiamo farci niente, però, e proseguiamo nella salita facendo zig zag le rocce troppo lisce per le scarpe piatte di Andrea e Siso.
Il Partenone ci delude un po’, tutto impalcature e travi d’acciaio, ben lontano dalle aspettative che anni di studio classico avevano creato in noi. Ne contempliamo comunque la possenza, respirando la storia che trasuda e racconta. Il panorama è di livello: Atene, notiamo, è una città bianca. Bianca e triste.
Ci spostiamo alla stazione di Omonoia per decidere il da farsi e dopo aver cambiato idea 4 o 5 volte e osservato un bambino ciccione giocare a basket con la maglia di Ronaldo, decidiamo di passare la notte ad Atene, in un Hotel economico nel Pireo.
Prima del piacere, però, ci vuole altro piacere, e allora ci dirigiamo, approfittando anche del blando controllo sui biglietti della metropolitana, al Museo Archeologico dove, tra le altre cose, possiamo ammirare con i nostri occhi la maschera di Agamennone.
Nel tragitto verso l’Hotel ci fermiamo in un Mini-Market a comprare una sottospecie di cena, la fame comincia a farsi sentire. Fino al Pireo è lunga, e siamo stanchi morti e doloranti, puzziamo e ciò è bello.
La giornata sembrava finire con l’Hotel Delfini pronto ad accoglierci, e invece no. Ci viene assegnata la stanza 27B e mai in vita nostra dimenticheremo quello che abbiamo visto. Un tugurio ricavato da un’intercapedine tra le stanze vere. Formiche ovunque, spazio al minimo, luci rotte. E’ troppo anche per noi. Chi di noi si era spogliato si riveste in fretta e giù a reclamare una stanza quantomeno umana. Dopo qualche resistenza, l’odioso e baffuto proprietario ci consegna le chiavi della 18B. Ecco quello che fa al caso nostro: stanza arrangiata ma civile. Ci godiamo una doccia calda sognata per tutto il giorno (forse anche per quello prima) e ci mettiamo a letto (“a brandina” per quanto riguarda Casty).
Di nuovo stanchi, di nuovo sporchi, di nuovo felici, di nuovo in InterRail.

N.B.
Il wi-fi scarseggia, così come il tempo di scrivere per ora. Comunque faremo il possibile per soddisfarvi, curiosoni.

P.S.
Un bacio alle nostre temporanee compagne di viaggio Carlotta, Sofia, Angela, Giulia e Margherita. Voi non sapete quante donne avrebbero pagato fior di quattrini  per stare 

sabato 12 luglio 2014

L’eterno ritorno dell’uguale

Proprio quando le nostre convinzioni d’eternità cominciavano a vacillare, scosse da universitari venti borghesi, proprio quando la strenua volontà incendiaria dei nostri vent’anni sembrava essersi spenta nelle profonde grotte delle rocce sacre a Odino, proprio quando l’antico e virile slancio della giovinezza sembrava essersi smarrito, come dissolto tra le nebbie del nord e i flutti del mare in tempesta, ecco aprirsi di nuovo davanti a noi l’essere, l’essenza, l’ebbrezza, nelle pieghe misteriose dell’estate afosa di Roma. 

In riva al mare, la Vita era stesa in forma di donna ad attendere il nostro ritorno. Silente, aspettava fissando l’oceano il momento in cui le nostre sicure vele avrebbero oscurato il sole del crepuscolo per giungere da lei pronti, una volta toccata la spiaggia, a portarla con noi lungo i sentieri di un nuovo viaggio al termine della notte. 
Un anno e più aspettò invano la nostra dolce compagna, eterna e paziente Penelope, ma mai, ne siam sicuri, mai essa ha distolto lo sguardo dall’orizzonte: sapeva che saremmo tornati, quali colombe dal disìo chiamate.
Ignorava, però, che ciò che soffocando le sue preghiere non osava chiedere nemmeno agli dei, ciò che le stelle avevano da tempo disegnato, gli usignoli cantato, le fronde sussurrato, gli aruspici predetto, si stava segretamente preparando a palesarsi. 
La linea retta mente. La verità è un circolo.” Così sentenziava un tedesco coi baffoni (baffoni, non baffetti) qualche anno prima di morire di sifilide. Die Ewige Wiederkunft des Gleichen: l’eterno ritorno dell’uguale, il serpente inesorabilmente destinato a mordersi la coda. Eccolo, il nostro Uroboro, affondare i denti sanguigni nelle squame della sua coda, come ad assaporare, avido, la sua stessa carne di rettile. Eccolo, tre anni dopo, chiudersi nel simbolo sacro del cerchio, finire dove tutto era cominciato e ricominciare dove tutto sembrava essere finito. 
Tre anni fa partimmo in tre, da Roma, volando verso ovest. 
In due, poi, per due volte da Roma volammo verso nord, sentendo freddo e caldo.
Tra pochi giorni voleremo ancora, di nuovo in tre, di nuovo da Roma, stavolta verso est.

La linea retta mente. La verità è un circolo.

La linea retta mente. La verità è un circolo.

La linea retta mente. La verità è un circolo.


Nella terra calcata da Platone ed Aristotele, costruita da Pericle e Licurgo, difesa da Temistocle e Leonida e poi distrutta dai burocrati di Bruxelles: lì comincerà il nostro viaggio. 
Con gratitudine e devozione salutammo Odino e le sue antiche rune, ora ci accoglie Atena dagli occhi scintillanti.